Anita

Anita

15,00

ANITA di Maria Franzé €15.00

brossura 238 pag. B/N

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Descrizione

Prefazione

di Mauro Geraci

La storia di Anita corrisponde quella dell’umanità con le sue grandi e piccole miserie, con i suoi drammi, le guerre, le rivolte, i tentativi di fuga, i movimenti, le crisi, gli amori e le continue violenze. Quadri sofferti che compongono il grande cartellone della storia del mondo entro cui, assieme ad Anita, agiscono o vengono trascinati la madre Tina e la nonna Assunta, il padre Karl, le amiche Lucia e Melissa, i compagni Leandro e Victor e ogni altro personaggio che via via qui affiora col peso del suo dolore. Maria Franzè, invece, si ritaglia un ruolo tanto lucido ed estraniato, quanto partecipe e amorevole, che “si diverte” a inseguire, tra questi quadri, possibili relazioni, collegamenti, realistiche e trasversali trame di vita vissuta. Posizione alta, vigile, sensibile che se richiama il realismo letterario meridionale mi ricorda, più da vicino, i cantastorie e la comunicazione del grande poeta siciliano Ignazio Buttitta. Nei suoi recital di piazza, egli usava spesso dare le spalle al pubblico volgendosi invece al cartellone dipinto di cui si sforzava, con la forza della sua poesia e dei suoi gesti, a indagare le possibili relazioni tra i personaggi, baroni e contadini, unitari e non, tra le scene contrastate del Sud (del resto, già nel XII secolo, il trovatore provenzale Raimbaut D’Aurenga confessava come anche lui si divertisse a entrebescar los motz, cioè a intrecciare, con le parole, diplomazie e storie di corte).

Anche Maria Franzè dissotterra, intreccia storie, vissuti, racconti dando le spalle ai lettori, agli ascoltatori, agli osservatori di questo libro. Non per male, sia bene inteso, ma per porsi essa stessa tra loro, al pari di loro, come tra gli spettatori di una piazza, della piazza del mondo, appunto. Maria è una delle poche scrittrici che non violenta le cose che narra o che le narrano i personaggi in cerca d’autore; non si sovrappone mai a esse con morali predefinite, siano pur esse le condanne verso le violenze ancor oggi inflitte alle donne. Lei, al contrario, riesce a farsi lettrice, ascoltatrice della realtà e delle stesse vicende che narra, per meglio guidarci nel cartellone cangiante, mutevole, contraddittorio, nero e colorato di Anita e dell’epopea che l’accompagna, quella dei due Mondi e anche del Terzo. Così, fenomeni certo distanti nello spazio, nel tempo e nella storia politica – la seconda guerra e il nazifascismo, il conflitto israeliano-palestinese fino all’intifada del 1987, l’avvento della dittatura militare in Brasile e la sua caduta nell’’84, il Sessantotto e gli strascichi nei Centri sociali di una Milano contigua a quella “da bere”, dell’alta moda, del craxismo, degli yuppies e poi di Tangentopoli, l’orientalismo e le vie di fuga nell’esotismo dell’India, dello Yoga come in fedi e medicine alternative e trascendentali, l’inanellarsi di fenomeni migratori dalle mille sollecitazioni – in Anita compaiono ravvicinati, entro lo stesso, globale quadro contemplativo. E ciò fa sì che, sulla pelle sociale di Anita come delle figure da lei incontrate fin dalla nascita in quella “sperduta fazenda” brasiliana e nel successivo peregrinare in Europa, Maria Franzè vi possa scorgere le lontane, sovrapposte ferite lasciate da questi turmenti di populu (direbbe ancora il cantastorie Vito Santangelo), le interferenze che le hanno generate, gli “unguenti” con cui sono state mano a mano lenite, più o meno temporaneamente.

Nell’Anita scritta e letta da Maria, ognuno finisce così per riconoscere pezzi della propria vicenda personale, familiare, esistenziale. E ciò in un romanzo che somiglia ancora a un palinsesto che, nonostante la drammaticità dei fatti narrati o richiamati, ci risolleva perché sa rimetterci al centro dei nostri ricordi, delle nostre possibilità di memoria, del nostro essere attori e autori, narratori e al tempo stesso lettori della storia. Con questo racconto Maria Franzè riesce, cioè, a fermare per un istante questo mondo-lavatrice che gira vorticosamente, che passa su tutto, che lascia correre, che ci fa dimenticare e scorrere il più intimo dolore con un dito, sullo smartphone, senza darci il tempo di soffermarci a leggere le storie, a ragionare, neutralizzando coscienze, possibilità d’azione, reazioni, indignazioni, rivoluzioni. Per ciò la scelta letteraria di Maria risulta ancor più importante perché fatta in questa “modernità” che, come sostiene l’antropologo inglese Paul Connerton in uno dei più importanti studi sull’oggi, “dimentica tutto” e presto. Attraverso quella di Anita o Le vite degli altri (penso allo straordinario film di Florian Henckel von Donnesmark proprio sugli intrighi tra memoria, letteratura e politica nell’ex Germania dell’Est) questo libro, insomma, ci fa rispecchiare nel passato comune dove ritroviamo le ragioni, le increspature della nostra stessa vita. I protagonisti vi si muovono e noi li riconosciamo, ci identifichiamo, li seguiamo nei retroterra, nelle distanze, nelle diversità, nelle lontananze, nei drammi che li caratterizzano e che via via s’avvicinano, s’incrociano, ci avvolgono: e scopriamo un Brasile più vicino di quanto sia in effetti, il passato d’emigranti che tutti ci riguarda, il nostro essere irripetibili incroci; e ci scopriamo vittime e complici silenziosi di regimi, mode, ideologie, guerre, violenze, opportunismi, mancati ascolti; poi i rimpianti.

Oltre a essere libro delle memorie, cioè di un passato che torna a condizionare e incidere sul vissuto attuale dei personaggi, Anita è un libro dei sogni, e ciò secondo una prospettiva originale che la scrittrice ha già sperimentato ne Il Risveglio (2008) e, ancor più, in Qualcosa di noi (2019), recente serie di racconti anch’essi felicemente pubblicati dall’editore Masciulli. Le figure che vi emergono e interagiscono non sono cioè spinte soltanto dal loro drammatico passato o dalle congiunture esistenziali del presente ma, anche e soprattutto, dalle loro aspirazioni, dalle loro future proiezioni, insomma dai loro sogni. Sono colte proprio nello scarto tra “ciò che sono stati”, “ciò che non potrebbero non essere” e “ciò che, invece, avrebbero voluto o vorrebbero ancora essere”. Da qui il realismo di cui parlavo e che – proprio come nei Maestri di Verità quali furono Omero o Esiodo, nei trovatori medievali o nei pueti-cantastori nel Sud ancor oggi contigui al mondo della magia, della medicina popolare e della divinazione – si fa fantastico. Un realismo fantastico, dunque, quello di Maria Franzè. Tutt’altro che scientista, cinico e convenzionale e reso tale proprio dalla forza propulsiva dei sogni. Realismo futuribile che riesce a farsi carico tanto dei condizionamenti storici e socioculturali quanto delle fantasticazioni, dei tentativi di evasione dalla realtà, delle rivoluzioni piccole o grandi che siano, comunque delle lotte profonde che i personaggi ingaggiano sempre con sé stessi e contro il vento troppo invadente e conformista delle società in cui si sono trovati a nascere, vivere e morire.

Così, da “semplice” romanzo, Anita diventa un florido libro della memoria ma anche un vivo, efficace punto di ritrovo, di complicità ritrovata, di una progettualità incondizionata da cui ripartire a mente fresca per il domani.